La classe e il ” disastro antropologico”

Hanno bisogno di modelli adulti che al di là delle parole gli facciano vedere come si fa, per tentare di capire se possono credere in una vita diversa. Hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a costruire le loro spalle, invece di piangere sulla loro condizione.
1 Febbraio 2011

Ho fatto un peccato. Di quelli veniali. Di quelli comunicativi, che spesso nessuno menziona. “Prof. ma cos’è sta roba?” “Leggi e stai zitto, non ti dirò nulla su cosa è prima che tu lo abbia letto, capito e commentato!” Si sono entrato a gamba tesa, senza circospezione, senza introduzione. Secco secco, ho messo sul banco di ognuno un fogliettino, in una 3° dove stavamo parlando dell’eutanasia e del rapporto con la sofferenza. In tutto 117 parole. Senza autore, senza titolo, senza contesto. E’ ho chiesto loro di leggerlo personalmente e poi di commentarlo insieme. 

All’inizio c’erano sibili e mugugni, ma quasi d’improvviso la classe si è ammutolita in un silenzio irreale, che mi ha stupito. Per circa un minuto siamo andati avanti così, ognuno a cercare di leggere e capire quelle 117 parole. Poi all’improvviso, dal fondo, Giacomo ha rotto l’incantesimo: “Non ci ho capito nulla prof., ma sono d’accordo con quello che c’è scritto”. Mi aspettavo una risata generale. Invece Luca e poi Lucia e poi anche altri: “Si prof. è strano il testo, un po’ complicato ma quello che dice non è sbagliato”. “Ma scusate se non lo avete capito come fate a dire che siete d’accordo?!”. E Giacomo: “Cioè non è che non abbiamo capito. E’ che il filo del discorso parola per parola non lo seguo, ma capisco quello che vuole dire e sono d’accordo”. E anche gli altri annuiscono su questo.

Ecco le 117 parole: “Nella mentalità più diffusa, la sofferenza è l’ambito oscuro della vita che è meglio mettere tra parentesi, e da cui in ogni caso è necessario preservare i più giovani. Ma questo, pur scaturito dalle migliori intenzioni, è l’autoinganno più fatale che si sia indotto nei figli, nei nipoti, nei discepoli. Tentando di preservarli dalle difficoltà e dalle durezze dell’esistenza, si rischia di far crescere persone fragili, poco realiste e poco generose. Se a questo si aggiunge una rappresentazione fasulla dell’esistenza, volta a perseguire un successo basato sull’artificiosità, la scalata furba, il guadagno facile, l’ostentazione e il mercimonio di sé, ecco che il disastro antropologico in qualche modo si compie a danno soprattutto di chi è in formazione”. Facile riconoscerle. Lo stralcio più citato della prolusione del Card. Bagnasco pronunciata in apertura del consiglio della CEI, lo scorso 24 gennaio.

Mi aspettavo intanto che fosse meno comprensibile e su questo devo fare “mea culpa”. Ma soprattutto mi aspettavo che le voci discordanti fossero almeno quanto quelle a favore. E invece, in una classe di 22 adolescenti di 16 anni, solo uno, verso la fine dell’ora, ha detto: “Bhè soffrire non è mica bello. Che male c’è se uno cerca di evitarlo. Quando capiterà che ci dovrà fare i conti vedrà come fare. Al massimo cerca di scansarlo”. 

Per tutti gli altri era chiaro che una concezione del mondo e della educazione in cui le cose sono sempre lisce non sta in piedi. Qualcuno lo dice apertamente. “Mia madre 5 anni fa ha avuto un aborto spontaneo ed è stata male da cani, e io ho pianto a vederla così. Ma la sua forza e il suo coraggio mi hanno insegnato che il dolore ti fa fare le spalle robuste (Martina)”. “E’ stupido illudere noi giovani che la vita sia tutta rose e fiori. Basta guardare certi adulti… Io non vorrei mai diventare così, ma non riesco davvero a immaginare come potrei essere diversa (Jasmine)”. E poi Lucia: “Ma perché si dovrebbe evitare il dolore. E’ come si ti mancasse una parte di te. Anche il dolore è una emozione, e va presa così com’è. Io vorrei vivere per intero la vita, non a metà.”

E di fronte a queste frasi mi suonano davvero fuori luogo le abusate sentenze del sociologi e psicologi che bollano questa generazione come gli sprecati, gli anonimi, i passivi. Il vero problema è che loro lo sanno come sta la realtà. E non gli piace. Sanno benissimo che fare “l’oca a vent’anni dandola via a gente di settanta è veramente triste!” (ancora Martina). Intuiscono e sentono che il richiamo di Bagnasco è centrato e finalmente chiaro. Ma hanno bisogno di modelli adulti che al di là delle parole gli facciano vedere come si fa, per tentare di capire se possono credere in una vita diversa. Hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a costruire le loro spalle, invece di piangere sulla loro condizione.

Verso la fine dell’ora ho svelato l’autore, il contesto e a chi era riferito. E immediatamente i paraventi di parte si sono alzati inevitabili. “E allora perché la Chiesa non fa quello che dice? Perché cerca anche lei il guadagno facile e la scalata furba? – ancora Martina! – Se invece di fare pappa e ciccia con chi ha i soldi fosse un po’ più coerente e mi facesse vedere come si fa davvero a diventare grandi ed essere felici, che senza avere paura di rimetterci forse mi servirebbe di più che dire queste cose del Cardinale”.

Loro lo sanno… Noi ce ne dimentichiamo così facilmente…

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