Papa Francesco, incontrando lo scorso 5 giugno i responsabili del progetto Policoro della Conferenza Episcopale Italiana, ha detto: «La dignità della persona non viene dai soldi, non viene dalle cose che si sanno, viene dal lavoro. Il lavoro è un’unzione di dignità […] Occuparsi del lavoro è promuovere la dignità della persona. Infatti, il lavoro non nasce dal nulla, ma dall’ingegno e dalla creatività dell’uomo: è un’imitazione di Dio creatore».
Parole non nuove nel magistero del Papa, che ha insistito più volte sulla necessaria dignità del lavoro: «L’uomo è coinvolto nel lavorare. È la prima vocazione dell’uomo: lavorare. E questo dà dignità all’uomo. La dignità che lo fa assomigliare a Dio. La dignità del lavoro» (omelia del 1 maggio 2020), dignità che, va da sé, implica anche una giusta retribuzione: «Preghiamo per tutti i lavoratori. Per tutti. Perché a nessuna persona manchi il lavoro e che tutti siano giustamente pagati e possano godere della dignità del lavoro e della bellezza del riposo» (ibidem, Introduzione alla Messa).
Insomma, la questione è nota e ampiamente argomentata da parte della Chiesa e possiamo ascriverla ai temi dell’equità, della dignità, della giustizia sociale. Sono dunque rimasto non poco sorpreso quando ho letto il bando 2021 del CUC, il Centro Universitario Cattolico, organismo legato alla CEI, scaduto il 14 maggio scorso. La lettura del bando ha suscitato in me due perplessità, la prima di origine culturale, e la seconda, più grave, di ordine economico.
In primo luogo, al paragrafo 1, si legge: «Il Centro Universitario Cattolico (CUC) mira ad aiutare giovani laici aspiranti alla carriera universitaria nel conseguimento della necessaria preparazione scientifica, onde assicurare presso le Università italiane la presenza di docenti che testimonino i valori evangelici nella vita e nell’insegnamento».
Dunque, mi pare di capire, lo scopo del CUC è assicurare una presenza di cattolici nel mondo accademico italiano; sottolineo ‘italiano’: il paragrafo 3a specifica che i candidati devono aver conseguito un titolo in Italia e il 5h che il docente disponibile a seguire un candidato deve insegnare in Italia. Già questo mi pare discutibile: chi ha almeno un poco di confidenza con il mondo accademico attuale sa che viene favorita la mobilità internazionale degli studiosi, che essa può essere un valore e non un disvalore… ma a un giovane che si è laureato o specializzato all’estero la CEI dice: grazie, ma non ci interessa il tuo rientro in Italia (così come non si sostiene un giovane che voglia andare a fare ricerca all’estero, per poi magari tornare).
Temo serpeggi una sorta di autoreferenzialità o di municipalismo, oppure di scarsa cognizione di causa, tanto più che la recente Costituzione Apostolica Veritatis Gaudium (29 gennaio 2018) ribadiva la «necessità urgente di “fare rete” tra le diverse istituzioni» accademiche nel mondo [4d]. Invece qui sembra fare capolino un’impostazione molto più territoriale e novecentesca, che va a escludere menti brillanti solo perché hanno studiato all’estero o hanno referenze da docenti non italiani o desiderano uscire dalla penisola.
A questo tema ‘culturale’ avvicino anche l’elenco dei requisiti, tra cui il paragrafo 5b: chi vuole fare domanda, deve presentare un «curriculum dettagliato del candidato, comprensivo delle esperienze ecclesiali (ad es. animatore parrocchiale o di oratorio, catechista, vita di associazione, movimento, gruppo, altro)», insieme (6b) a una «presentazione ecclesiastica da parte del Vescovo della Diocesi di residenza, in originale, che attesti la formazione cristiana e l’impegno in forme di apostolato».
A parte che mi chiedo come faccia un vescovo di una grande diocesi (Roma, Milano, Napoli, Torino…) a conoscere personalmente un candidato, mi pare che pure qui si tralasci un fatto concreto: quanti giovani hanno studiato in Università lontane da casa, ‘sradicandosi’ dalla propria comunità di residenza (si parla di “vescovo di residenza”, non di domicilio, ad esempio), non sempre trovandone un’altra, anche per mobilità di vita? Magari frequentando il corso triennale in una città, il biennale in un’altra? E il dottorato (il bando è anche per post-doc) in un’altra ancora? E ugualmente: non si rischia così di ‘privilegiare’ chi ha seguito il normale curriculum parrocchiale rispetto a chi, invece, ha preferito esperienze diverse, di frontiera, su più territori, ma non riconosciute? Non c’è anche qui un problema culturale, legato al ‘che cosa dare valore’, insieme a una conoscenza per lo meno superficiale del mondo giovanile oggi? Quanti giovani ‘cattolici’ sono lontani da esperienze fisse e tradizionali di parrocchia, per cui il parroco e il vescovo possano garantire, ma sono comunque in un sentieri di studi, ricerca, servizio cristiano? Quanti giovani si impegnano in attività di volontariato che non sono direttamente di ‘apostolato’? Quanti si muovono su più regioni?
Va da sé l’altra domanda: a quale giovane cattolico pensa il CUC quando stende il bando? Su quale giovane vuole puntare? A chi vuole dare spazio e sostegno?
Ma arriviamo alla seconda perplessità, che mi ha fatto balzare sulla sedia e rileggere il bando più volte, in relazione al ‘trattamento economico’, sul quale si dice che il CUC mette a disposizione: «per l’anno 2021-2022 n. 16 borse di studio. L’importo di ciascuna borsa è di € 6.000 annui, al lordo delle imposizioni fiscali previste dalla legge».
Ohibò, 6000 euro lordi all’anno! Il che equivale a 500 euro lordi al mese. Dunque, il CUC per promuovere la presenza di giovani ricercatori cattolici post lauream, nati dopo il 31 dicembre 1988 (3c), quindi dai 25 ai 32 anni, offre 500 euro lordi al mese. Considerando la natura del bando, che è legato a un progetto di ricerca triennale, esso si configura sostanzialmente come un dottorato o un postdottorato. Dunque, la CEI sostiene l’eccellenza accademica con 500 euro lordi al mese, nemmeno bastevoli per una camera singola in appartamento condiviso in una città universitaria. E qui piovono domande: come si può offrire questo trattamento, quasi che la ricerca non sia un lavoro e come tale non debba essere giustamente retribuito, e pertanto sostenuto nella sua dignità? Un giovane può campare con 500 euro lordi al mese? Si favorisce l’indipendenza del giovane, la sua assunzione di responsabilità? Si favorisce il suo desiderio di costruirsi autonomamente una vita, magari una famiglia?
Si dirà: questa borsa si affianca alle altre borse di studio (dottorato o postdoc), andandole a integrare. Ma questo nel bando non è specificato, il che certamente non è nemmeno escluso: si parla di erogazione a chi abbia un reddito inferiore ai 20.000 euro lordi annui (non certo da nababbi), ma, per esperienza, so che si andranno a privilegiare gli studiosi che non abbiano altri redditi, anche perché solitamente partecipa a tali bandi chi non ha goduto di altre borse… E considerando la penuria di borse di dottorato e il loro scarso importo (magrissime in Italia: dai 1000 ai 1200 euro al mese circa) e postdoc (un poco più alte, molto più rare), ancora mi sorgono delle domande: la CEI vuole sostenere le menti brillanti italiane in questo modo? È questo l’investimento economico per una presenza formata nel mondo accademico? Sommando le 16 borse, il CUC investe 96.000 euro l’anno, per tre anni, per sostenere giovani ricercatori. Se non si possono aumentare le somme totali (ricordo che l’8×1000 ammontava, l’anno scorso, a 1 miliardo e 136 milioni di euro), non sarebbe allora più dignitoso ridurre le borse a 4, garantendo un reddito decente? E ancora: nessuno si domanda quale messaggio si comunica con un bando del genere? Quale scarso rilievo sembra darsi alla ricerca, alla formazione, alla cultura? Bisognerebbe ascoltare (cosa che ho fatto, lo confesso) alcuni dei giovani che hanno fatto domanda per farsi un’idea di che impressione hanno avuto dalla Chiesa italiana circa un bando con tali importi (ma, costretti dalla necessità o dalla passione, o senza bisogni economici, hanno comunque avanzato la richiesta).
Da poco è stata rinnovata la Commissione CEI per l’educazione cattolica, la scuola e l’università, presieduta da Monsignor Giuliodori. L’appello è, per l’anno prossimo, a mettere mano a questo bando CUC, affinchè sia più coraggioso, più equo, più generoso, più concreto e più rispettoso della dignità umana dei giovani ricercatori italiani, secondo il felice monito di Benedetto XVI: «Che cosa significa la parola ‘decente’ applicata al lavoro? Significa un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare» [Caritas in Veritate, 63].
PS: trattandosi di borse per giovani trentenni, mi auguro che sia possibile chiedere delle proroghe retribuite in caso di maternità…
Specchio” un inserto di quotidiano, “leggo:voglio amici, non follower”, l’uomo digitale è più solo che mai”l’importante non è quante volte cadi, ma quante volte ti rialzi.”. Merita leggere tutto di questo intelligente buon servizio al cittadino lettore, per una visione in quale oggi ci troviamo a vivere e poi meditare. Se vendo auto da corsa seleziono piloti che siano all’altezza di guidarle, allenati in circuiti dove emergono doti e i limiti per una scelta dove si riscontrano risultati. Oggi anche il nostro Paese Manifesta tutte le difficoltà, in piazze importanti sfilano cortei gridanti richieste di lavoro, giustizia, equità sociale denuncia di poverta insostenibile, dignità offesa.Come non attendersi che anche un Vescovo, la Chiesa,sia attiva a rispondere allo Spirito di quel Cristo che li ha mandati per aver cura del suo gregge, a essere sostegno tra quelli che sono in sofferenza, che per questo rinuncianti magari a quanto di ambizione personale potrebbero aspirare?