«Sono molti, in rapidissima crescita, i minori in età scolare costretti a “sospendere” la consueta vita quotidiana e a lasciare la terra d’origine, per fuggire ed iniziare un incerto viaggio. Tra le molteplici esigenze cui far fronte, è prioritario assicurare loro il proseguimento del percorso educativo e formativo, anche perché possano ritrovare condizioni minime di “normalità” quotidiana». La nota 381 del Ministero dell’Istruzione, del 4 marzo scorso, è molto chiara sulle modalità di accoglienza dei bambini profughi dall’Ucraina, che arriveranno nelle nostre scuole dopo l’abbandono repentino e drammatico del proprio paese.
La nota prevede anche uno stanziamento di risorse tra le scuole interessate: un milione di euro «da destinare alle istituzioni scolastiche coinvolte significativamente nelle attività di accoglienza». Non sembra un granché, a dire il vero: immaginando che delle 40 mila scuole pubbliche italiane sia coinvolto -mettiamo- solo il 5% si tratterebbe di 500 euro a scuola! E se in un primo momento sembrava che gli alunni da accogliere fossero meno di 4 mila, le stime attuali del Ministero dell’Istruzione parlano di «17.657 studenti ucraini accolti nelle scuole del sistema nazionale di istruzione», per cui le scuole coinvolte potrebbero effettivamente essere parecchie (concentrate soprattutto in Lombardia, Emilia Romagna e Campania). Inoltre, se per elemosinare un po’ di visibilità gli istituti continuano a contendersi i bambini, con azioni folkloristiche, servizi giornalistici e dirette YouTube, la situazione potrebbe sfuggire di mano e far sfumare l’efficacia dei fondi investiti. Il Ministero specifica: «è necessario che il personale scolastico possa essere affiancato da mediatori linguistici e culturali che favoriscano l’interazione e la comunicazione interpersonale». Un’accoglienza attenta, dunque, attraverso la mediazione di figure professionali specifiche, per dare un benvenuto adeguato a bambini pieni di paura e smarrimento.
La realtà è che la scuola, con tutti i suoi limiti, ha sempre accolto tutti, attivando percorsi a tutela degli alunni più fragili. Negli ultimi anni lo ha fatto utilizzando la categoria dei “bisogni educativi speciali” per gli studenti in svantaggio socio-economico, linguistico o di qualsiasi altra natura. Più precisamente, la gestione degli studenti stranieri è normata dal decreto legislativo 62 del 2017 (art. 1, comma 8): «i minori con cittadinanza non italiana presenti sul territorio nazionale hanno diritto all’istruzione e sono valutati nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani». Perciò li accogliamo e li trattiamo come tutti gli altri. Il che mi sembra giusto, ma c’è sempre dietro l’angolo il rischio di fare “parti uguali tra disuguali”, come direbbe Don Milani.
Essere valutati «nelle forme e nei modi previsti per i cittadini italiani» può essere letto in positivo, quindi come un’esortazione ad attivare gli stessi strumenti in caso di disturbo dell’apprendimento, di disabilità, ecc. Letto in negativo, tuttavia, può impedire che si ricorra a strumenti compensativi o dispensativi specifici. Ad esempio, gli studenti stranieri non sono esonerati dalle prove nazionali INVALSI, e, poiché devono essere valutati come gli altri (ne hanno “diritto”, mi è stato risposto!), non abbiamo modo di accompagnarli con un mediatore culturale o un facilitatore linguistico. La situazione di queste figure professionali a dire il vero è molto più drammatica. Fino a prima della pandemia la situazione fotografata da Giunti Scuola era sconfortante: «nell’anno scolastico 2010/2011 le ore di mediazione linguistico-culturale per le scuole di Milano erano state 2.826, nel 2014/2015 sono state 320. Nell’anno 2009/2010 i corsi di italiano L2 (40 ore ciascuno) per gli alunni NAI (Neo Arrivati in Italia), finanziati dal Comune di Milano, erano stati 240. Nel 2014/2015 sono stati 24. Non va meglio la situazione dei facilitatori linguistici per gli alunni NAI: nell’anno scolastico 1998/99, a Milano e provincia i facilitatori erano 700, nel 2014/2015 sono stati 53».
Insomma, siamo arrivati molto poco preparati a gestire questa nuova emergenza europea, e l’impressione è che stiamo cercando di affrontarla salvando la “capra” dell’accoglienza e i “cavoli” del risparmio economico, nella maniera più bieca possibile, ossia facendo dei vergognosi distinguo tra profughi di provenienza differente: «Tu sì, tu no», scriveva un mese fa Paolo Rumiz, «Due file, come ad Auschwitz». La nota 381 è chiara fin dalla prima frase: «il nostro Paese, insieme ai partner europei, è impegnato ad assicurare accoglienza umanitaria a coloro che fuggono dai territori coinvolti dalla guerra in atto in Ucraina». L’applicazione pratica è che possiamo attivare con questi nuovi alunni interventi che non avevamo attivato con gli altri alunni profughi, per i quali non avevamo più risorse da investire. L’INVALSI ha già chiarito di aver dovuto recepire la norma in maniera selettiva e le scuole si sono adeguate. Scrive un istituto di Bologna: «Gli alunni neo arrivati in Italia dovranno svolgere le prove standard come gli altri (tranne gli allievi provenienti dall’Ucraina, che sono esonerati)».
Dei profughi delle altre decine di guerre che imperversano in paesi vicini o lontani (dalla Siria alla Libia, dallo Yemen all’Etiopia) non ci eravamo preoccupati; chissà che queste nuove norme non ci portino ad un cambio di paradigma. L’esperienza della pandemia avrebbe dovuto lasciare investimenti strutturali nella manutenzione degli spazi e nell’attivazione di presìdi sanitari stabili nelle scuole: così non è stato (ne avevo già discusso qui). Auspico che invece questa nuova emergenza si tramuti in un investimento per la strutturazione di mediatori, educatori e psicologi, a beneficio di chi viene oggi e di chi verrà domani.
Già le nostre scuole sono bisognose di essere migliorate e riguardo alle strutture che per supporto di insegnanti. Chi si trova a essere accolto e aver salva la vita, è già molto trovare il pane quotidiano in compagnia dei disoccupati e delle famiglie in ristrettezza in loco. Non c’è ricchezza da condividere ma povertà con larghezza di cuore, questo sì, è suppongo sia la cosa più importante che ricorderanno quando, speriamo, il loro Paese avrà superato la crisi. Abbiamo paesi in località amene, privi di abitanti, anche con scuole di pochi allievi, una risorsa direi invece che citta gli abitanti delle quali, lamentano fatti come raggiri di anziani soli, droga e ruberie, anche alla luce del sole. La realtà è anche questa, va riflettuta, considerata è resa partecipe con tutta la buona volontà di una generosa accoglienza.Aver raccolto 1000 euro per i cristiani di Gerusalemme sembra una cifra per una parrocchia oggi, un aiuto giustificato da crisi di povertà ovunque !
Mi dicono che sono molto “irrequieti”!!🙁
Forse val la pena di farli ‘accompagnare” da qualche parente? Tipo badante?