Anche io pensavo di poter dire: “Smetto quando voglio”. Ma, come molti altri, mi sono dovuto ricredere: è la sostanza che mi gestisce, non io che gestisco lei. L’ho visto ultimamente, quando a fronte di situazione dure che sto attraversando, mi sono ritrovato a “farmi” giornalmente, anche più volte, discrete dosi di Vangelo. Tanto che l’altro giorno ho deciso che non posso continuare così e ho promesso a me stesso di smettere. Così mi sono rivolto ad una persona competente per farmi aiutare. Ma la prima cosa che mi ha indicato è stata quella di iniziare a fare la spesa stabilmente al Lidl, nota catena di supermarket discount.
Alla mia richiesta di spiegazioni, l’esperto mi ha rassicurato mostrandomi un articolo di giornale (https://www.avvenire.it/attualita/pagine/lidl-croci-delle-chiese-eliminate) in cui si racconta una strategia di marketing messa in atto da Lidl, che consiste nella neutralizzazione religiosa delle sue immagini pubblicitarie, facendomi intendere che poteva essere un buon inizio per liberarmi dalla mia dipendenza.
Già era successo a settembre con una foto delle chiese dell’isola greca di Santorini, prive delle croci, stampata sull’etichetta di uno yogurt. Dal Belgio un consumatore aveva scritto alla ditta chiedendo spiegazioni e si era sentito rispondere che si trattava di una scelta “politically correct”: per non urtare nessuno “evitiamo l’utilizzo di simboli religiosi, perché non vogliamo escludere alcuna credenza religiosa”. In questi giorni è successo di nuovo, per una maxi foto nel supermercato di Camporosso, in provincia di Imperia, che raffigura il borgo di Dolceacqua: sullo sfondo sono “sparite”, a colpi di fotoritocco, le croci sulla facciata e sul campanile della chiesa.
Questa volta è stato il sindaco del paesino a scrivere alla ditta: “Possono certamente utilizzare la foto di Dolceacqua e ci fa anche piacere, è un simbolo della zona e un luogo molto conosciuto. Ma se vogliono farlo, devono rispettare la realtà dei fatti: sulla chiesa ci sono le croci, simbolo di tradizione prima che di religiosità. Perciò, il Comune si riserva di adire le vie legali a tutela della propria immagine e del proprio territorio”. Ma la risposta questa volta è stata diversa: “l’immagine di Dolceacqua è stata acquistata da un database fotografico, stampata e affissa. Non ci siamo accorti che l’immagine non presentava le croci. Nessuna strategia di marketing quindi, ma una semplice svista di cui ci scusiamo. Perciò, l’immagine verrà rimossa e sostituita immediatamente”.
E qui, però, gli effetti della mia tossicodipendenza, purtroppo, si sono fatti sentire. Perché non sono riuscito a tacitare dentro di me la sensazione che il sindaco di Dolceacqua abbia utilizzato la stessa strategia di marketing del Lidl. Il discount reagisce differentemente nei due casi perché sa che in Belgio la neutralizzazione religiosa dello spazio pubblico è molto più avanzata che non in Italia. E si adegua a questo. In Belgio si può essere “politically correct” esplicitamente, in Italia lo si può fare solo nascostamente. Ma l’obiettivo è sempre lo stesso: ottimizzare la propria immagine in relazione al contesto socio – culturale, per poterla rendere una buona etichetta del proprio prodotto. Il sindaco dice che la croce è un “simbolo di tradizione prima che di religiosità”, e va ripristinato “a tutela della propria immagine e del proprio territorio”. Cioè, la croce va rimessa per garantire l’immagine del territorio, in modo che si abbia una buona etichetta per fare vendere meglio il proprio prodotto – paese.
E’ evidente che ho assunto dosi massicce di una sostanza pericolosa a dire questo! Perché nessuno penserebbe sul serio di intendere una croce come “una buon etichetta”. E poi volete mettere? Vendere un prodotto non equivale a salvaguardare una tradizione! Perché di questo parla il sindaco, non di un valore religioso.
Ma la preoccupazione per la mia salute aumenta quando, nella nuova scuola, un Liceo, in una classe terza, inaspettatamente, dopo aver accennato al tema dell’immigrazione, una ragazza mi apostrofa: “Prof, ma perché dobbiamo accoglierli noi, se loro non lo fanno con noi, nei loro paesi. Io voglio applicare il principio di reciprocità”. Le chiedo: “Tu sei in grado di ottenere reciprocità in Iran, in modo che lì siano possibili espressioni religiose diverse dall’Islam?” “Ovvio che no, prof. E quindi è giusto comportarsi come loro”. “Ah, quindi è meglio fare una cosa che tu ritieni scorretta, come vendetta contro chi non ti accoglie, piuttosto che fare ciò che ritieni giusto. In questo modo la decisione del tuo modo di comportarti è nelle mani dell’altro, non nelle tue”. “Ho capito prof. Ma noi abbiamo una tradizione ed è giusto garantirla”. “Scusa, in cosa consiste questa tradizione?” “Come prof? L’Italia è un paese a cultura cristiana”.
A questo punto, se fossi stato lucido e non sotto effetto di una “sostanza”, avrei dovuto darle ragione. Purtroppo, invece, le ho detto: “Qual è la percentuale di Italiani che va a messa la domenica? Da quanto tempo esiste il divorzio in Italia, e l’aborto? Vendiamo i preservativi nelle farmacie? Quanti Italiani sono disposti ad accogliere chi scappa dalla fame e dalla guerra? Quanti Italiani pagano le tasse dovute? Quanti uomini italiani si mantengono fedeli alla loro donna? Quanti adulti accettano di lavorare meno, per lasciare un po’ di spazio ai giovani? Ho l’impressione che l’unica cosa che ancora ci fa pensare di essere un paese a cultura cristiana siano le croci e le chiese in giro per le nostre città, croci spesso usate solo come etichette e Chiese regolarmente chiuse o vuote”.
Lo so, abbiate pietà di me, vi prometto che smetterò di “farmi” di Vangelo.