Il metodo Gibson

A me sembra davvero che l'urgenza di oggi sul piano di una nuova educazione alla fede sia quella di promuovere esperienze emotive in cui si possano aprire le domande che l'uomo da sempre si porta dentro, prima che tentare di dire qualcosa a chi ci ascolta.
2 Marzo 2011

“Posso uscire, prof, non riesco a guardare ste robe.” Erica era stata entusiasta della mia proposta. Ma ora dopo circa un’ora e mezza mi chiedeva di uscire per un eccesso di emozione. E la sua voglia di vedere il film non era nata solo per poter passare due ore non troppo pesanti. Ma dall’interesse vero per il tema. “Lo sa prof, ho fatto tre anni di catechismo per la prima comunione, ma su come finisce la storia di Gesù ne so mezza”.

In prima, da qualche anno, sono costretto a non dare per scontato molte cose. Ad esempio perché Gesù sia morte crocifisso, la vicenda biografica dei suoi ultimi giorni, e soprattutto il senso che questi avvenimenti hanno per i cristiani. “L’hanno messo in croce perché non voleva pagare le tasse”. “Ma no, perché ha cacciato una bestemmia nel mezzo della Chiesa, ma poi li ha fregati perché è sceso dalla croce ed è tornato a vivere”. 

Allora mi sono deciso a dedicare un po’ di tempo a raccontare i fatti, così come dai vangeli si possono decifrare, con un racconto asciutto e senza appesantire troppo con intromissioni esplicite dei significati. Ho visto che la cosa regge e mi sono confermato che raccontare storie è ancore un modo efficacie di insegnare. Perciò, quest’anno ho provato ad alzare il tiro. Non solo raccontarle, ma mostrarle.”Oggi come vi avevo detto, se volete vediamo un film, anche se non arriveremo a vederlo tutto in un’ora”. “Quale prof?”. “Non ve lo dico, vi fidate?”. “Ma se poi non ci piace smettiamo però…”. Così ho fatto partire il cd. E tra sistemazioni di banchi, risolini, ultime battute da scambiare e qualche richiamo al silenzio, le parole di Gesù nell’orto degli ulivi, hanno riempito l’aula. “Ma che lingua parla quello, arabo?”. “No, aramaico, – dico dal fondo della classe -“. “Ma non ci capiamo niente in aramaico… Aaahh ci sono i sottotitoli… si però che palla…”. Poi la musica e l’atmosfera lentamente li zittisce e piano piano sono trascinati dentro i sassi di Matera a seguire il racconto della Passione.

Devo dire che non amo questo film di M. Gibson. Per la mia sensibilità post-conciliare lo trovo troppo devozionale, con riferimenti storici inesatti e una concessione esagerata al gusto del sensazionalismo. Ma io ho 50 anni e l’effetto sulle generazioni di 14enni è tutt’altra roba. Prima il silenzio, poi la curiosità di individuare nei luoghi e nei personaggi brandelli di ricordi catechistici ormai sdruciti, poi l’emozione delle scene volutamente crude della flagellazione e crocifissione. E così prende corpo una storia fatta di emozioni più che di significati e di intrecci narrativi, dove la partecipazione passionale dei ragazzi prende un posto centrale nell’avvicinarsi ai contenuti della trama.

“Io li avrei ammazzati tutti, trattarlo in quel modo!!”. “Prof, ma quanto ha sofferto!!??”. “Ma deve avere avuto una forza d’animo della madonna” (battuta involontaria…!). “Ma perché non é scappato quando ha capito che lo beccavano”. “Prof, la fine la vediamo la prossima volta però…, cioè lo so come finisce, ma lo voglio vedere, perché è diverso che saperlo”. Qualcosa è arrivato e l’emozione virtuale vissuta ha messo in moto il cervello. 

Non voglio dire che il film di M. Gibson sia un nuovo vangelo. Ce ne sono già quattro, bastano e avanzano. Voglio solo dire che per l’uomo di oggi sentire è diverso da pensare. Sentire il dolore di Gesù, è diverso che sapere che lui è morto per i nostri peccati. Lasciare che il senso sorga come possibile risposta ad una domanda aperta da una emozione vissuta è molto diverso che ascoltare la spiegazione logica del senso fatta in modo esplicito che anticipa le domande o non le rende esprimibili.

E nell’ora buca successiva ho fatto due riflessioni.  A me sembra davvero che l’urgenza di oggi sul piano di una nuova educazione alla fede sia quella di promuovere esperienze emotive in cui si possano aprire le domande che l’uomo da sempre si porta dentro, prima che tentare di dire qualcosa a chi ci ascolta. E lavorare per riaprire le domande richiede relazione, tempo, desiderio di ascoltare l’altro e soprattutto il coraggio di mostrare al vivo la nostra diretta esperienza di fede, perché in essa la gioia e il senso che noi viviamo possa essere percepito. 

Secondo. Se si va su questa strada però è indispensabile che si rimetta mano al concetto di evangelizzazione. Gesù non è un contenuto. Gesù è una relazione. Evangelizzare non può continuare ad essere percepito come un compito da svolgere all’interno di una organizzazione  strutturata per ruoli, ma piuttosto come un desiderio di comunicare una esperienza che nasce da una vita spirituale effettiva, e che al di là dei ruoli, mette in risonanza due persone che si incontrano e si raccontano. Perciò si mettono in gioco.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

I commenti devono essere compresi tra i 60 e i 1000 caratteri. I commenti sono sottoposti a moderazione da parte della redazione che si riserva la facoltà di non pubblicare o rimuovere commenti che utilizzano un linguaggio offensivo, denigratorio o che sono assimilabili a SPAM.

Ho letto la privacy policy e accetto il trattamento dei miei dati personali (GDPR n. 679/2016)