I ragazzi che si sono diplomati ultimamente alla Scuola per Attori, del Teatro Stabile di Torino, hanno costituito una compagnia teatrale i “Potenziali Evocati Multimediali” (PEM). Diretti dal regista Gabriele Vacis, dall’inizio del 2023, portano in scena l’Antigone di Sofocle, in una versione molto post moderna. Nella fase iniziale della preparazione dello spettacolo teatrale, Vacis ha chiesto ai suoi giovani attori di riflettere personalmente sui temi e le domande esistenziali di Antigone. Lorenzo Tombesi, uno di essi, 24 anni scarsi, ha prodotto questo monologo che sta spopolando sui social.
A vederlo sembrerebbe davvero l’intervento fatto in uno di quei momenti di “autogestione” scolastica che i “millenials”, fino a qualche anno fa ancora chiedevano, quasi come un “ora d’aria”, per sopravvivere alla scuola. In realtà si tratta, invece, di una sorta di rivelazione del “fuoco sotto la cenere”, cioè di ciò che la generazione Z vive e non dice, e spesso non sa nemmeno dire: desiderio di vita piena, nascosto sotto ad un equilibrio fragile, forse più stabile e meno passivo di quello dei millenials, ma pur sempre precario.
Se i millenials erano rimasti a metà del guado, di fronte alla difficoltà di provare a ricucire tra loro ragione, emozione e istinto, la generazione Z ha dato per scontato la frammentazione antropologica e non sembrano più preoccupati di cercare una ricomposizione interna, ma vivono i loro frammenti parallelamente uno all’altro, diventando multitasking. Così gli attacchi di panico non sono più un allarme, ma piccoli normali inciampi esistenziali; così la ricerca del senso del proprio corpo diventa condizione abituale e irrisolvibile; così il virtuale diviene una dimensione esistenziale al pari del reale, mostrando l’alba di una evoluzione antropologica già imminente.
Se i millenials erano rimasti bloccati nel qui e ora del tempo reale e dello spazio virtuale, conseguenza della pervasività della rete, senza sapere come uscirne, la generazione Z dà per scontato la globalizzazione culturale ed esistenziale e si dispone ad una attesa attiva del senso della vita. Così radicati sempre più nell’assenza di tempo della virtualità, attraverso esperienze ed incontri cercano di trasformare le fughe dalla realtà in possibili soluzioni di vita.
Se i millenials erano rimasti scioccati dall’evidente corrosione dei legami sociali, non riuscendo ad ipotizzare come lasciare traccia di sé nella società, la generazione Z dà per scontata la sfiducia sociale e si rende disponibile ad un bricolage dei rapporti sociali. Così accettano di stare dentro al sistema, e da dentro provano a dare corpo a microrivoluzioni settoriali (diritti umani, ambiente, comunicazione…) non per cambiare il sistema, ma per dire a sé stessi “io conto, io ci sono”.
Se i millenials erano rimasti nell’impossibilità di creare sentimenti e relazioni stabili, ma ancora attratti dalla ricerca del grande amore, la generazione Z accetta di vivere nel “chi si accontenta gode”, ammettendo come del tutto plausibile un doppio regime nelle relazioni affettive sessuali: tutto lecito fino a che si tratta di fare esperienze dell’altro come di uno specchio in cui ritrovarmi, ma quando l’altro viene sentito davvero come “partner” possibile, allora si scopre tutta la loro reticenza e la timidezza sentimentale, in cui al corpo è demandato di dire quello che le parole non hanno il coraggio di dichiarare, perché “l’amore è una bomba tra le mani” (un mio studente di terza superiore, qualche settimana fa).
Ma sotto questo equilibrio fragile resta vivo il fuoco della pienezza. Che il monologo di Lorenzo ci regala in modo così chiaro e palpabile. Sembra perciò del tutto fuori contesto ipotizzarlo come richiesta di ritorno all’ideologizzazione degli anni ’70 (Paolo Hutter – Il fatto quotidiano), come pure immaginarlo come l’emergere di un desiderio di morte, laddove la vita non consenta di trovare un senso pieno (Alessandro D’avenia – Il corriere). Nulla di tutto questo. Lorenzo, invece ci mostra, proprio nei suoi paradossi ed estremismi, il permanere del bisogno di senso pieno alla vita, che, pur cambiando forme, espressione, accenti e tematiche, continua a non essere cancellabile da nessuna generazione che si affacci alla vita. E si ritrova vivo e potente, dentro e al di là del covid, della guerra e delle percezioni vaganti di una apocalisse imminente.
Come educatori a cui sta a cuore lo sviluppo pieno dei giovani, di fronte a queste improvvise rivelazioni delle profondità autentiche dei ragazzi, dovremmo, allora, ben guardarci dal desiderio immediato di offrire una risposta. Sarebbe tradire la loro domanda e il loro desiderio di pienezza. Dovremmo, invece, lavorare affinché queste “rivelazioni” del fuoco sopito si moltiplichino e sia possibile portare alla luce questo bisogno per farlo entrare nello spazio relazionale educativo, ove possa crescere e non essere occultato. Solo allora, solo quando la loro domanda diventa interpellanza esplicita a noi adulti, possiamo, con umiltà e franchezza, raccontare a loro il nostro senso pieno della vita e sperare che qualcosa si accenda in loro. Ammesso che noi un senso pieno ce lo abbiamo.
Viene in mente la Parabola dei due discepoli sulla strada per Emmaus. Conversavano sugli avvenimenti accaduti in Gerusalemme, il Maestro crocifisso è morto, il suo corpo sparito dal sepolcro, sconvolti gli altri alla notizia di angeli che annuncianti che Cristo però era vivo!. I giovani oggi si trovano frastornati a vivere in un mondo pieno di suggestioni, alla ricerca da se stessi dove trovare ancoraggio alla fiducia in cui incamminarsi. Esiste la Chiesa, la quale istruisce ma è dalla esperienza personale di realtà da vivere che possono arrivare a credere al Cristo vivo è Risorto. Anche i loro occhi sono impediti a vedere fino a quando anche loro non riconosceranno la Verità da quel pane di tutti i giorni che spezzeranno con i compagni di strada. Certo e’ da andare loro incontro perché sono nati e non tutti hanno conosciuto prima il Cristo, i miracoli che l’amore gratuitoricevuto induce a vedere e credere