Essere almeno uomini

Essere almeno uomini
13 Febbraio 2018

Non me lo aspettavo. Finora era una classe tranquilla, disponibile a lavorare, ma senza particolare interesse. E ci sta. Ma mentre entravo in classe, dal fondo, attraversando le due file di banchi, Alberto, quasi in “scivolata”, da dietro, mi ha sorpreso: “Prof. lei cosa farebbe ai due immigrati di Macerata?”. Ero assorto. “Scusa, non ho capito”. “Prof. i due che sono accusati per la morte di Pamela. Sembra li abbiano scagionati dall’omicidio, ma sono rimasti indagati. Cosa dovremmo fare con tipi del genere?”.

“Ok, ragazzi, provate a sistemarvi intanto che rispondo ad Alberto. Indagato non vuol dire colpevole. Capisco che la giustizia italiana non sia sempre attendibile, ma fino a prova contraria in una democrazia non c’è da fare nulla contro chi è solamente indagato”. “Va beh, prof – prosegue Alberto – non mi vorrà dire che secondo lei sono innocenti. Hanno ammesso anche loro che erano lì dove Pamela è morta. Puliti puliti non devono essere”. La classe intanto si è messa in silenzio e le ultime parole di Alberto sono arrivate chiare e limpide fino all’ultimo banco. Fino alle orecchie di Elisabetta, minuta, viso sereno, pulita, solitamente attenta e tranquilla.

“Ma tu non puoi continuare tutte le volte che parli a sputare veleno contro gli immigrati. No davvero! Sta roba mi sta troppo bruciando. Anche ieri con italiano hai sparato una sentenza contro chi viene a portarci via il lavoro. Come se il lavoro noi ce l’avessimo!! Ma ti rendi conto che sei razzista!!”. Il volume della voce, il tono, e lo sguardo di Elisabetta sono stati un fulmine a ciel sereno. Tutta la classe si è girata verso di lei, incredula. Alberto compreso. Un istante lunghissimo di silenzio ha tranciato l’aria. Io, sbigottito dalla furia e dall’impeto con cui Elisabetta è esplosa, non ho trovato le parole per sbloccare il momento. Enrico, dal primo banco, dritto in piedi ha detto: “Anche a me ieri ha dato fastidio la frase di Alberto, ma non c’è bisogno di reagire così Betta. Alla faccia della razionalità laica!”

Ancora più stupito chiedo: “Ragazzi cosa sta succedendo? Fatemi capire”. “No prof. – continua Enrico – è che ieri abbiamo discusso un po’ con Italiano per la faccenda di Macerata. E alla fine il prof. ha richiamato la classe perché se si discute bisogna farlo senza emozioni, utilizzando la razionalità laica, attraverso la quale ci si capire”. “Ah, – rispondo – Mi colpisce che vi si chieda di discutere lasciando da parte le emozioni. Noi siamo sempre tutt’interi. E se Elisabetta non ha trovato modo di esprimere le sue emozioni ieri, forse oggi sono ancora più forti e difficilmente governabili proprio per questo. La scommessa di una buona educazione è quella di permettervi di discutere con le emozioni, ma senza che queste diventino ingestibili. Se uno sputa sentenze contro gli immigrati lo fa perché emotivamente non è tranquillo. Qualcosa della questione lo tocca personalmente. E se uno sputa sentenze su chi sputa sentenze sugli immigrati è nelle stesse condizioni dell’altro. Qualcosa lo tocca personalmente. Dire con violenza a qualcuno “sei razzista”, rischia di farci essere altrettanto razzisti”.

Intanto ho fatto finta di non guardare Elisabetta, ma no l’ho perso di vista un istante. Ha sbuffato un paio di volte, ha alzato la testa con attenzione e poi però si è rintanata nel banco, dietro una carezza della compagna di banco. “Betta – proseguo – credo tu abbia tutti i diritti di esprimere la tua emozione sulle parole di Alberto. E altrettanto lui ha diritto di esprimere le sue sugli immigrati. Ma questo va fatto senza dare giudizi. Quando generalizziamo così tanto perdiamo di vista le persone reali. E la nostra emozione ha campo libero per devastare le nostre idee. Stiamo coi piedi per terra, cioè non perdiamo mai di vista le persone reali. Betta, davvero pensi che Alberto sia razzista?”

Elisabetta non si muove, diventa rossa, e si trattiene. Il silenzio imbarazza la classe. Poi finalmente: “Ok, prof. Ho sbagliato, non era il tono giusto. Non condivido quello che Alberto dice, forse ammetto che lui abbia buoni motivi per pensarlo. Ma non credo che lui abbia il diritto di dirlo in questo modo, perciò anche lui dovrebbe scusarsi”. “Grazie Betta, e onore a te, per la tua sincerità. Alberto, che ne dici?” “Prof. io ho detto quello che penso, non posso mica cambiare idea solo perché qualcuno non è d’accordo con me!”. Lo interrompo. “No, Alberto la questione non è questa. La questione è sul modo con cui dici le cose. Nessuno ti sta chiedendo di cambiare idee, ma di trovare modi più rispettosi di dirle. Su questo Elisabetta ha ragione, dovresti chiedere scusa”.

“Eh, prof. io sono fatto così. Mica potete chiedere di cambiarmi!”. “No, no, Alberto – ribatto – non sei fatto solo così. Se ti esprimi con tanto rancore contro gli immigrati ci sarà un motivo. Non credo che tu parli sempre così di ogni cosa, con ogni persona. Perciò mostraci che puoi fare meglio. La democrazia comincia proprio qui, quando io, nelle mie relazioni, provo a dare il meglio che ho. Per me stesso. Per sentire che posso essere all’altezza di essere almeno uomo. E’ per questo stesso motivo che da sempre l’uomo emigra, quando le condizioni di vita non gli permettono più di essere almeno uomo. Dobbiamo farci insegnare da loro ad essere uomini?”

La classe mi guarda fissa, in silenzio, attenta. Non era mia intenzione parlare della democrazia, ma mi è uscita così. E capisco che aspettano che io tiri l’ultimo filo. “A proposito di elezioni, visto che qualcuno di voi voterà già, sarebbe serio, secondo me, poter scegliere persone che sanno gestire una discussione in modo umano, almeno umano. Un criterio di scelta strano se volete, ma credo che darebbe risultati un po’ diversi da ciò che già ora i sondaggi mostrano”.

  1. Finita la lezione, mentre uscivo e loro facevano ricreazione, con la coda dell’occhio ho visto Alberto alzarsi e andare verso il banco di Elisabetta.

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