Anche il bene può essere molto forte

«Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza»
7 Maggio 2017

IV domenica di Pasqua: Gv 10,1-10

LA PORTA DELLE PECORE (incisione di Philip Galle da un dipinto di Pieter Bruegel il Vecchio, 1565, New York, Metropolitan Museum of Art)

 

Quasi scioccante per la brutalità dei violenti, quest’opera ha un merito: quello di allargare l’inquadratura, facendo vedere che cosa c’è – nella realtà – attorno al quadretto bucolico del pastore con pecora in spalla, che rischia d’essere un sedativo se fa solo pensare alla bontà.

È Gesù stesso, d’altra parte, a premettere un dramma all’immagine del buon pastore. E il pittore non fa che enfatizzarlo, ritraendo un ovile preso d’assalto da gentaglia d’ogni tipo, armata fino ai denti e intenta ad arraffare tutto il possibile.

È vero che il caricare (tipico dei disegnatori) porta inevitabilmente a deformare: però può spingere a vedere ciò che di solito non si vuole vedere. Mentre le figure dolci e consolatorie spesso impediscono di pensare alle dimensioni del male. Che nel XX secolo – scrive San Giovanni Paolo II – «non è stato un male in edizione piccola, per così dire “artigianale”. È stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema…». Dalla potenza del male Gesù mette in guardia i farisei, in particolare coloro che si pongono come guida delle persone senza amarle: lupi con le fattezze umane dei ladri e dei briganti.

Va detto che, oltre a mostrare la spettacolarità del male, l’opera non perde di vista il bene. Il fatto, ad esempio, che l’amore sia conoscenza, è riscontrabile nel modo in cui il pastore Gesù viene guardato dalle pecore. Che conoscono la sua voce, come lui conosce ciascuna di loro per nome (ne conosce pure l’odore, aggiungerebbe papa Francesco, a dire quanto le consideri proprie).

Non si può non ricordare il recente discorso del pontefice sulla rivoluzione della tenerezza, cioè «l’amore che si fa vicino e concreto. La tenerezza è usare gli occhi per vedere l’altro, usare le orecchie per sentire l’altro, per ascoltare il grido dei piccoli, dei poveri, di chi teme il futuro; ascoltare anche il grido silenzioso della nostra casa comune, della terra contaminata e malata. La tenerezza significa usare le mani e il cuore per accarezzare l’altro. Per prendersi cura di lui».

Il prendersi cura si realizza anche nel quadro: il pastore, infatti, nonostante sembri statico (come la porta in cui si identifica), tra poco smetterà di assistere allo scempio. E che stia per passare all’azione è chiaro nella parte superiore dell’opera, dove la metafora si sviluppa: a sinistra, si vede il buon pastore difendere le pecore mettendo in fuga il lupo; sul lato destro, invece, il mercenario – a cui non importa nulla del gregge – lo abbandona alla vista del lupo.

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