Ciò che è accaduto a capodanno in alcune città tedesche è inquietante e preoccupante per vari motivi.
Perché (a quanto pare) ci si trova di fronte ad una forma nuova di violenza organizzata. In parte inedita e che quindi per poter essere combattuta va approfondita e compresa meglio.
Perché (a quanto pare) la forma di violenza ha colpito nel segno di nostre fragilità e tensioni culturali e sociali. Si è infilata in varchi aperti, arrivando a nodi scoperti e quindi ferendo in modo più profondo e non solo individuale. Che questo aspetto sia stato premeditato o no è comunque avvenuto. Ed anche con questo ora che si deve fare i conti.
Credo che i nervi scoperti toccati da questo fenomeno siano essenzialmente tre:
Tutto questo riguarda tutti. Uomini e donne. Stanziali ed immigrati. Nuovi arrivati e seconde generazioni.
Da tutti serve rifiuto della violenza. In qualsiasi forma e contro chiunque.
Da tutti serve non rinnegare i diritti umani. Ovunque e di chiunque.
A livello di principio sono due punti fermi che serve ribadire, tutti assieme. Non come il forte che impone al debole di abiurare la propria civiltà (fede e cultura) per abbracciarne un'altra. Non come obbligo condizionale per l'inclusione ("la mia società è così, se vuoi integrarti devi accettarli"). Ma come base di comune umanità. Da rivendicare e ricercare. E poi serve trovare, con pazienza e tenacia, pragmaticità e creatività le forme per dar gambe a tutto questo nella pratica.
E su questo continuo a pensare che le esperienze di islam europeo, le seconde generazioni in Italia ed i nostri expat all'estero sarebbero risorse preziose da valorizzare.
Così come un'esperienza di incontro europeo e di grande investimento (fatto insieme da più religioni) in una riscoperta delle esperienze e delle pratiche di nonviolenza nel mondo sarebbe una ricchezza inesplorata per la convivenza e la pace (vogliamo pensare anche solo a Aug San Suu Kyi e alla recente vittoria alle elezioni in Birmania per fare un esempio di donna, non cattolica e non occidentale?)
Poi, se volessimo approfondire, potremmo dire che la violenza sulle
donne ha più a che vedere con una distorsione dell'idea di mascolinità e
di rapporto con il potere che con ipotetici "usi errati" della
femminilità. Che il corpo della donna come territorio simbolico di
conquista in cui piantare, anche fisicamente, un segno tangibile del
proprio passaggio è (purtroppo) un classico di tutte le guerre (e delle
esperienze coloniali). O su altri fronti potremmo dire che è risaputo
che i ricongiungimenti famigliari riducano l'incidenza della devianza
nelle esperienze migratorie e persino che l'idea (fondata della nostra
cultura occidentale) del dualismo corpo/anima ha qualche responsabilità
morale nelle nostre distorsioni attuali...
Dopo capodanno ognuna di noi sarà più in tensione per strada di notte.
Ma, da donna, rivendico il diritto di non sentirmi dire che la soluzione è che io stia più attenta. E di non sentir parlare di me come proprietà (nemmeno in termini di proprietà da difendere).
E, da donna occidentale, rivendico il diritto di dire che il tema dell'emancipazione femminile è tutt'altro che risolto anche da noi. E, da donna occidentale cattolica,
aggiungo il diritto di specificare che in quel "da noi" rientra anche
la dimensione religiosa. Perchè a prender per buono il metro del
giudizio superficiale ed esterno di ciò che è civile e ciò che non lo è
nelle religioni si rischiano certi boomerang...
Da donna rivendico il diritto di identificarmi in tutte le donne.
Quelle palpeggiate o stuprate per strada (o dentro casa). E quelle che
muoiono in guerra o in mare con i figli in pancia o in braccio. Ma anche
in ogni altro essere umano. E rivendico il diritto di avere, sulle
cose che accadono, un pensiero articolato e complesso. Di avere, a
volte, anche idee diverse da altre donne senza che questo sia vissuto
come tradimento o mancanza grave.
Rivendico persino (ma guarda un po'!) il diritto di uscire dall'eterno ruolo di vittima. E di partecipare attivamente, in ogni campo e settore ed attività, a costruire una società ed un popolo migliore.
Una società capace di trovare un equilibrio tra la condivisione della foto di un bambino morto in mare su ogni bacheca social ed il deliberato nascondimento a tutti gli organi di informazione di una notizia per cinque giorni. Una società capace di non essere sciatta nelle traduzioni da una lingua all'altra, capace di trovare (o creare) termini diversi per concetti diversi senza mettere la semantica a servizio delle proprie posizioni.
Una società che, orfana di ideologie, recuperi maggiore capacità di convivere con emozioni e sentimenti. Impulsi e desideri. Distinguendo gli uni dagli altri dando a ciascuno il proprio posto.
Una società che ritrovi la capacità di fare politica davvero e non per reazione istintiva di pancia a ciò che avviene giorno per giorno.
Cosa sta dietro all'assenza di coraggio politico, di cui tanto ci si lamenta? In questi anni abbiamo trovato molto valore, disponibilità al sacrificio di sé ma, anche tra noi, pochissimo coraggio politico... Il coraggio politico può crescere solo sul terreno della responsabilità libera dell'uomo (e donna, ndr) libero.... Per chi è responsabile la domanda ultima non è: come me la cavo eroicamente in quest'affare, ma: quale potrà essere la vita della generazione che viene... (D. Bonhoeffer)
13/01/2016 09:35 Yolanda De Riso![]() | Versione stampabile |
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Nata a Luino (sulle sponde del lago Maggiore) nel 1970, cresciuta tra Roma, periferia di Milano e frequentazioni balcaniche. Aclista, assistente sociale (alle origini) ha incrociato il mondo della cooperazione internazionale allo sviluppo dove è stata presidente dell'ong Ipsia. Negli ultimi tempi si occupa per le Acli nazionali di progettazione sociale, innovazione sociale e volontariato.
Sposata con Roberto. Mamma di Pietro e Giovanni, di cui cerca di appuntarsi alcune "citazioni domestiche: frasi dal quotidiano di bimbi in crescita" senza riuscire (finora) a dar loro alcuna forma compiuta.
Sta provando l'esperienza di tenere un blog, #rendiamociconto